Le foto sono senza dubbio figurative, ma è contemporaneamente un attentato continuo alla rappresentazione. Le figure perdono in identità quello che guadagnano in mistero, in diffidenza. Il mistero penetra nel quotidiano e il sovvertimento del pensiero diventa una dolce consuetudine.
Vi è quasi uno stupro commesso dalla stessa fotografia che non si accontenta di accogliere sulla carta le apparenze del mondo visibile, ma si impegna a cambiarle, addirittura a polverizzarle,al fine di disporle secondo un ordine poetico-magico che permetta allo sguardo di arrivare fino al sensibile ,fino alla verità, fino a quei sensi che non si desumono dal visivo. Non si tratta di copiare il reale, di magnificare le apparenze del mondo, ma di costruire un’immagine della realtà capace di rilevarne la natura profonda, segreta, quella che generalmente è fuori dalla portata degli occhi, nascosta, dietro lo sguardo, nella mente.
Da millenni l’Occidente considera la vista come una potenza che domina gli altri sensi, come una divinità che regni sul corpo, addomesticando le altre forze del sensibile. Questo esorbitante privilegio accordato alla vista non ha cessato di crescere: noi viviamo oggi in una società dell’immagine, in un mondo di spettacoli: perfino arti come quelle degli audiovisivi, che dovrebbero più di altre mantenere un equilibrio tra colonna sonora e colonna visiva, danno al visivo un’importanza eccessiva.
Il mio problema è prima di tutto mostrare ciò che il visibile nasconde, una necessità di ricorrere a questo gioco a nascondino inerente al visibile per costringerlo a rivelare altro da ciò che rivelano le comuni apparenze.
Il silenzio è un altro aspetto fondamentale in questa mia ricerca. Nella vita udiamo molte cose ( un rubinetto che gocciola, un gatto che miagola, la auto che passano, una canzone alla radio…),ma mai suoni o rumori puri. L’unico suono veramente puro è il silenzio. Il visibile, è bene ripetere, nasconde, dissimula, ma è possibile farlo cadere nella sua stessa trappola, lo si può comporre fotograficamente e fargli mostrare cose che non ci sono e obbligarlo a far apparire tutto il mistero che cela, che contiene e che nel fondo è.
Fotografie che non agiscono in quanto specchio della realtà: non duplicano l’apparenza, la cambiano, la trasformano.
Non è mai la foto di una carta d’identità: non cerca di rinviare ad una realtà esterna di cui sarebbe la copia, ma di arricchire e di modificare l’immagine in modo da fare apparire non il reale, ma il suo insondabile mistero.
Le fotografie di questo progetto sono sempre un’immagine meditata, un’immagine pensata. In altre parole è sempre un’immagine che obbliga a riflettere sul suo status di immagine. L’immagine riprodotta non è mai una semplice apparenza, cioè un’apparenza che inganna
l’ occhio facendosi passar per la realtà che esse rappresenta. Esiste un’impotenza della fotografia
che è per struttura, per essenza,separata dal
reale, dal suo modello. Ma questa separazione indica un potere surreale ,magico, diverso: è la capacità di tradire la realtà stessa, di mostrare una pianta crescere su una sedia o un muro riflettere il cielo come uno specchio; è la facoltà di fare vedere la frattura che separa l’immagine da ciò di cui è l’immagine. La fotografia lavora sul visibile, opera all’interno del visibile, mai al di là
Non sono un’immaginativo, non sono un cantore del fantastico, ma un inventore, un meditativo. Non cerco di portar lo spettatore in un extramondo, ma tento di illuminare l’incoerenza delle nostre abitudini mentali, tanto che siano immaginarie o incoscienti.
In fotografia, pensare la differenza del visibile e del pensiero, obbliga il fotografo a rendere visibile il pensiero, a conferirgli uno status percettivo da parte dell’occhio.
Tra il visibile e le sue apparenze da un lato e l’invisibile e i suoi pensieri dall’altro c’è lo spazio per un contratto poetico –figurativo, per un’alleanza meditata tra le immagini e il loro senso. Ed è proprio un patto di questo genere, fatto di incertezze e meraviglie, che ho inserito nelle fotografie. Quasi un patto diabolico, poiché le parti che le compongono e lo contrassegnano sono di natura così incompatibile ed eterogenea che il loro incontro o scontro non potrebbe dare origine neppure ad una contraddizione.
Benchè tutti sappiano che il sole non è un grande disco rosso distante duecento metri, ciò non toglie che in alcune sere estive esso ci appaia in questo modo.
Sottratti alle relazioni interrogative del mondo comune, gli oggetti della fotografia acquisiscono un potere artificiale, una forza non-naturale, sono, in poche parole, dotati di una devianza superfisica, di quella
capacità di deviazione che caratterizza il pensiero, se è vero che il pensiero non è altro che un confronto attivo e intenso con l’impensabile.
La vita,il più misterioso di tutti i misteri, è mutilata e minacciata dai poteri della scienza e della politica che credono di avere la missione e la capacità di gestirla, vale a dire di valutarla e manipolarla.
Invece di cercare uno stile fotografico più o meno originale, invece di inventare nuove tecniche, ho preferito andar in fondo alle cose, usare la fotografia come uno strumento del pensiero, come uno strumento che fosse e restasse inscindibile dal mistero, cioè dall’inconoscibile.
Non permetto mai che il lato tecnico emerga su quello estetico; non credo possibile ne auspicabile che le cause materiali dell’opera vengano a perturbare il senso del tutto incorporeo che producono. Non si tratta di negare il condizionamento fisico o sociopsicologico, si tratta di privarlo del suo senso a favore di un senso artificiale, poetico, nuovo, che si basi sull’incerto, sul mistero.